domenica 23 gennaio 2011

E finalmente la copertina!

Di Davide Villa e Lucrezia Manenti.

grazie Davide della tua abilità e un abbraccio a Lucrezia (la prof più...temuta!)

150 anni unità d'Italia: l'uomo più fedele!

Rotonda dei Mille (BG)
Garibaldi: democratico, fedele al re!

“La guerra è lecita solo se è guerra per la libertà”. Parole che portano la firma di Giuseppe Garibaldi, democratico, anticlericale, repubblicano e tuttavia sempre fedele al suo re: Vittorio Emanuele II.
La sua vita, ricca di eccezionali imprese compiute in America e in Europa, è un romanzo di avventure, abbellito dal fascino dell’esotico; l’abilità con cui tiene testa ad avversari più forti lo accomuna agli eroi dei poemi epici, scatena la fantasia dei narratori, attira ammirazione e simpatia.
Coraggio e ostinazione, audacia e fortuna, s’intrecciano mentre, per anni, veleggia sui grandi fiumi e cavalca negli spazi sterminati di Brasile, Uruguay, Argentina, e quando combatte in Italia, sempre inferiore di uomini e di mezzi, sette campagne dal 1848 al 1867 contro austriaci, francesi, napoletani, e l’ottava in Francia nel 1870 contro i prussiani. Sorprende il nemico con inventiva e astuzia: in Brasile trasporta le navi dalla laguna al mare via terra; in Italia nel 1849 sfugge alla caccia di tre eserciti, nel 1860 beffa i borbonici, fingendo di ritirarsi mentre piomba su Palermo.
La fama delle imprese, che lo vedono protagonista per mare e per terra, vola nel mondo. Se ne parla in Europa e in America. In America combattono al suo fianco brasiliani, uruguayani, argentini ed emigrati italiani. In Europa italiani di tutte le regioni e di tutte le condizioni, democratici francesi, inglesi, americani, tedeschi, esuli polacchi, ungheresi, russi, slavi.
Già noto nel Sud America, il suo nome dal 1845 si affaccia prepotentemente sui quotidiani europei; riviste a diffusione internazionale ne pubblicano i ritratti, ne illustrano le imprese con i servizi giornalistici di disegnatori e fotografi che lo seguono sui campi di battaglia. Ritratti e rappresentazioni di episodi che lo riguardano sono diffusi con litografie a basso prezzo, in ogni angolo dell’Europa e delle Americhe. Si moltiplicano biografie, spesso romanzate, in italiano, in inglese, in francese, in tedesco, in tutte le lingue.
L’enorme popolarità non si spiega soltanto con l’eccezionalità delle imprese compiute. Ciò che colpisce è lo straordinario disinteresse, la fermezza con cui rifiuta ricompense e onori, la semplicità della sua vita, che sconfina nella povertà, la modestia con cui ritorna nell’ombra appena ritiene terminata la sua opera. La disponibilità con cui mette la sua vita al servizio dei ribelli del Rio Grande, dei difensori di Montevideo, dei repubblicani francesi, lontano da egoistici interessi nazionalistici. Sul fascino di una personalità, in cui convivono temerario sprezzo del pericolo in guerra e gentilezza di modi nella vita quotidiana, s’interrogano uomini politici, letterati, giornalisti. Lo idolatrano le donne, nobili e popolane, ricche e povere.
Notoriamente povero visse tutta la sua vita rifuggendo il denaro e gli onori per morire umilmente e dignitosamente. Il suo carisma, questa è stata la sua grande forza, ma questo è stato "anche" il suo peggior difetto.
Eh si, perchè i politici, i potenti, i suoi avversari e persino i suoi Fratelli massoni avevano paura di lui: temevano la sua lealtà, temevano la sua intransigenza di uomo giusto, temevano la sua incorruttibilità di uomo onesto e non gli perdonavano queste doti che lo ponevano al di sopra della mediocrità degli altri individui.
Diceva Cavour: "Come ci si può fidare di un potente che ama mangiare con la truppa o come accettare come capo supremo un uomo che invece di raccogliere onori e consensi, ama ritirarsi in un'isoletta come Caprera per coltivare la terra?"
Inconcepibile certo, per la personalità ambiziosa di Camillo Benso Conte di Cavour, eppure sono proprio questi tratti che rendono Giuseppe Garibaldi un mito che oltrepassa la leggenda del guerriero, che marca tutto il periodo del Risorgimento e in generale tutto il secolo scorso.
Cosmopolita che ha vissuto in tutti i paesi immaginabili, avventuriero nel senso più pittoresco del termine e al tempo stesso uomo di sinistra, democratico, repubblicano, anticlericale, con idee molto chiare e, proprio per questo, temutissimo e odiato da Cavour e dal re, in quelle circostanze irripetibili del 1860, Garibaldi ha saputo giocare la sua parte di grande condottiero e grande generale, facendo un passo indietro da politico, accettando che l’Italia unita fosse una monarchia liberale e non certamente quel paese più avanzato che lui avrebbe desiderato (per primo aveva infatti ipotizzato la formazione di un unico stato europeo).
Ma questo è il destino riservato ai grandi: per diventare un mito, una leggenda, un sogno, un richiamo, un’eco, un riflesso, un ricordo, ogni grand'uomo, in ogni epoca, ha sempre dovuto fare i conti con l'invidia e la gelosia degli altri.
E in questo Garibaldi non fa eccezione.
Il 26 ottobre del 1861 avvenne lo storico incontro a Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele: «Saluto in Vittorio Emanuele il primo Re d'Italia». Con queste parole Garibaldi, di fatto, consegnò al Re piemontese tutta l'Italia meridionale.
Visto l'entusiasmo e la popolarità che la sua persona scatenava nelle folle deliranti per le sue imprese, Garibaldi avrebbe potuto approfittare di questa sua posizione per ottenere privilegi personali, onori e denaro per se e per i suoi figli. Ma egli non volle alcun favoritismo nè alcun riconoscimento; si ritirò invece con un sacco di sementi e pochi soldi nella sua amata Caprera, dove rimase e morì il 2 giugno del 1882 alle 18.20. L’orologio di fabbricazione inglese del suo studio fu fermato ed i fogli di un grande calendario non furono più staccati: segnano ancora oggi l'ora e il giorno della morte dell'eroe.


“Uomo di fama mondiale”, lo saluta nel 1850 “The New York Daily Tribune”; il russo Herzen lo esalta nel 1854 come “un eroe classico, un personaggio dell’Eneide (…) attorno al quale, se fosse vissuto in altra epoca, si sarebbe formata una leggenda”, e dieci anni dopo come “l’unica grande personalità popolare del nostro secolo elaboratasi dal 1848”; “Uomo della libertà, uomo dell’umanità”, lo definisce nel 1860 il francese Victor Hugo; tre anni dopo è considerato “l’uomo più grande del secolo” dal presidente argentino Bartolomeo Mitre; nel 1867 è chiamato dallo svizzero James Fazy “l’uomo più valoroso e più disinteressato del suo secolo”; nel 1870 l’inglese Philip Gilbert Hamerton sembra “il più romantico eroe del nostro secolo, l’uomo più famoso del pianeta, il capo più sicuro di vivere nel cuore delle future generazioni”; alla sua morte tedesca “ Deutsche Zeitung” invoca un nuovo Omero “per cantare degnamente l’Odissea di questa vita”.
Davide Villa 4AL

venerdì 21 gennaio 2011

150 ANNI UNITA' D'ITALIA: Franceco Nullo, il prode

Bergamo e i suoi prodi….
alla prima spedizione di Sicilia e Napoli contano in prima riga i prodi figli di Bergamo [...] G. Garibaldi ».
(ex atti Museo Storico di Bergamo)

174 bergamaschi partono con Garibaldi nella Spedizione dei Mille, dando ottima prova di sé, come testimonia lo stesso Garibaldi nella lettera datata 10 febbraio 1864 e indirizzata all'allora sindaco Camozzi.
Tra questi 174 spicca, animato da un profondo spirito patriottico, Francesco Nullo (Bergamo, 1826 – Krzykawa, 5 maggio 1863), figlio di Arcangelo e Angelina Magno, commercianti di tele di lino. Già nel 1848 lo troviamo con i suoi due fratelli a fianco della popolazione milanese nelle barricate delle “Cinque giornate” di Milano, fatto che gli causò parecchi problemi con la polizia austriaca. Nel 1859 si unì a Garibaldi nelle file dei Cacciatori delle Alpi per combattere contro gli austriaci.
Prima della spedizione garibaldina in Meridione, si occupò personalmente dell’arruolamento dei volontari nella propria città che, visto il grande numero di adesioni, si poté fregiare dell'appellativo di Città dei Mille. Inoltre si dice che, grazie alla sua attività nel campo dei tessuti, fornì le camicie rosse utilizzate dai garibaldini nella suddetta spedizione.
Scrisse sul Libro d'Onore dei volontari bergamaschi:

« Io sono superbo di appartenere alla valorosa schiera dei figli di Bergamo che fregiano i fogli di questo libro d'onore e di vedere il mio nome accanto a quelli di tanti compagni d'armi »
(Bortolo Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo, ed. Bolis, 1989)
Ebbe una carriera militare assai veloce, che lo vide passare dal grado di capitano (dopo il suo ferimento a Calatafimi) a quello di tenente colonnello, per terminare a quello di generale. Nel 1862 venne arrestato con altri 123 garibaldini mentre organizzava una spedizione per la liberazione del Veneto. Continuò ad essere fedele compagno di Garibaldi anche nella seconda spedizione in Sicilia con lo scontro d'Aspromonte.
Dopo la caduta del governo Rattazzi, a causa della generale indignazione per i fatti d'Aspromonte, il nuovo primo ministro Farini incoraggiò Nullo a formare una legione di volontari per intervenire al fianco degli insorti polacchi contro la dominazione russa, assicurando il proprio intervento presso il Re, affinché dichiarasse guerra all'Impero russo. Farini venne considerato pazzo e costretto alle dimissioni, ma Nullo riuscì a partire per la Polonia, alla testa di una formazione raccogliticcia di circa 600 volontari italiani e francesi, tra i quali una sessantina di camicie rosse. Nonostante l'inesperienza degli insorti polacchi, si batté con un coraggio tale da creare attorno a sé un alone di invulnerabilità e procurasi l'ammirazione di tutti. Cadde in battaglia trafitto da un proiettile cosacco il 5 maggio 1863.
Ebbe solo il tempo di sussurrare, in dialetto bergamasco: ” So mort !”.
Diversi altri italiani furono uccisi in questo scontro ed alcuni furono fatti prigionieri e deportati in Siberia. In Polonia Nullo è considerato un eroe nazionale, tanto che, anche durante gli anni della guerra fredda, un console andava a Bergamo per rendergli omaggio ai piedi del monumento che la sua città natale gli ha dedicato.
Ilaria Mussinelli 5AL



Pietro Volpi, uno dei Mille
Attraverso queste poche parole vorrei dar voce a tutti quei giovani di ieri, che hanno inseguito il sogno dell’unità d’Italia e per essa hanno combattuto consapevolmente fino all’estremo sacrificio; vorrei far comprendere come l’unità rappresentasse davvero l’aspirazione collettiva e condivisa dagli italiani del tempo, e che fu il senso di identità e di appartenenza a permettere ai nostri soldati di combattere. Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che i nostri coetanei di quegli anni furono capaci di sacrificarsi per un ideale, di appassionarsi, di fare ogni genere di rinuncia. Il senso del dovere, lo spirito di sacrificio, l’amore per i propri cari sono i valori intensamente vissuti, e testimoniati dai giovani protagonisti di questa missione.
Pietro Volpi è il figlio del medico condotto di Zogno, che a 17 anni, quando ancora era studente al quarto anno del Liceo Classico “Paolo Sarpi” di Bergamo, decise di abbandonare la scuola per unirsi ad alcuni compagni decisi a lasciare una loro traccia nella storia.
La sera del 5 Maggio scrive una lettera da Quarto che testimonia molto bene quello che era lo spirito davvero patriottico che animava i Mille:

“Carissimi genitori,
Viva l’Italia! Vado in Siciglia, vado a combattere per la Patria. Se vado io contro il vostro volere perdonatemi. Ho creduto di fare bene alla Patria. Ma siccome tu, o papà, non ti opponevi a ciò, io veduta la bella occasione mi arruolai. Spero che voi mi perdonerete. Siamo partiti da Bergamo a un’ora dopo la mezzanotte, ora cinque maggio, giorno, a Genova e alle ore sei del medesimo giorno ci imbarcheremo per la Siciglia. Per la strettezza del tempo non posso scrivere a lungo, ma in Siciglia se potrò spedire lettere, vi scriverò ancora.
Addio dunque; se il ciel mi aiuta spero di vedervi ancora.
Addio, ricevete un bacio.
Ubbidientissimo figlio Pietro Volpi
Salutate le care sorelle
Genova, 5 maggio 1860”

In un’altra lettera, scritta da Castel Vetrano il 14 giugno 1860, Pietro Volpi racconta dello sbarco a Marsala, della battaglia di Calatafimi, di Garibaldi che buttò nella mischia i trecento uomini dell’ Ottava Compagnia, quella dei bergamaschi. Esprime, come in tutte le altre corrispondenze, affetto e nostalgia per i genitori e le amate sorelle.

Castel Vetrano, 14 giugno 1860
“Carissimi genitori,
dopo aver fatto un felice viaggio, il giorno undici siamo sbarcati a Marsala; ma però, se avessimo tardato u[…]  quarto d’ora il viaggio, i pesci avrebbero  fatto un buon pasto di tutti noi, impercioché, appena sbarcati giunsero due fregate nemiche le quali cominciarono a bombardare la città, ma si allontanarono subito, non avendo potuto fare nulla. Il giorno dopo ci incamminammo alla volta di Palermo; ma appena giunti in vicinanza di Calatafimi, ci incontrammo con il nemico il quale era il numero duemilacinquecento. Allora Garibaldi fece avanzare la prima e l’ottava compagnia, composta di solo trecento bergamaschi e all’ora una pomeridiana si incominciò l’attacco, il quale durò tre ore circa e io restai ferito nella gamba destra al ginocchio, ma senza pericolo. Il nemico fu sbaragliato interamente e messo in fuga. Noi feriti fummo trasportati a Vite e il giorno dopo ci trasportarono a Calatafimini dove fummo trattati come cani. Poscia ci trasportarono a Castel Vetrano dopo siamo trattati come principi.
Ora che sono rifiorito in salute e anche la gamba sta guarendo, camminando ancora con le stampelle, voglio che volino a voi le mie prime parole allegre e vi facciano fede della dolce memoria che io serbo e serberò di voi. E voglio che voi crediate che in mezzo al mio affanno la vostra immagine occupa la mia mente e il mio cuore; il pensiero dell’amor vostro e quello delle mie care sorelle, mi conforta l’anima e rivolgeva spesso i miei sospiri in vere lacrime di tenerezza. Se verrò a casa vi racconterò le cose più gravi; adesso non posso dilungarmi perché la posta sta per partire.
Preparatevi a mandarmi qualche cosa perché, quando sarò a Palermo, vi scriverò ancora.
Dunque addio, addio, salutatemi le sorelle e i parenti tutti, il Nando, presto spero di rivedervi.
Sono il vostro figlio ubbidientissimo, Pietro Volpi”.

Proprio ubbidientissimo Pietro Volpi non fu! Come ricorda Sylva nel suo libro “L’VIII compagnia dei Mille”, per la sua capigliatura arricciata “che fa l’effetto di un ammasso di spine, viene da Bandi ribattezzato Carciofo, nomignolo con il quale noi lo appelliamo poi sempre e di cui si chiama ancora adesso”.
La battaglia, in cui rimase ferito Pietro, fu proprio quella in cui Garibaldi, a Brixio che consigliava di ritirarsi, rispose: ”Brixio che dite mai? Qui si fa l’Italia o si muore”.
Al ritorno dalla sua avventura nel meridione Pietro volle per sua scelta ripetere la classe. Nel 1864 si iscrisse all’università di Pavia nella facoltà di medicina, per seguire il volere del padre. Due anni dopo rispose alla chiamata di Garibaldi arruolandosi tra i cacciatori delle Alpi, partecipando così alla Terza Guerra d’Indipendenza.
Nella corrispondenza con la sorella Teresa emergono le difficoltà dei momenti trascorsi in guerra: l’utilizzo dei nuovi fucili, gli scontri, il malcontento diffuso, le voci di pace.
Terminata la Guerra Pietro Volpi ritornò a Zogno, dove fu costretto ad abbandonare gli studi di medicina perché ammalato. Trascorse il resto dei suoi giorni curando le proprietà, e per non venir meno agli impegni presi dal padre, finanziò i restauri della Chiesa di Zogno. Morì a Zogno il 21 gennaio 1911.
Bortolo Belotti, ne “I cinque zognesi dei mille” scrive di Pietro Volpi: “uomo di poche parole e riservato, ma pur tuttavia con gli intimi socievole e amabilmente ironico, passò in ombra la sua vita. Lo ricordo ancora nell’albergo Italia, revocare vicine e lontane memorie, come lo ricordo presente in ogni manifestazione patriottica, nelle quali era simbolo vivo se pur taciturno”.

Guardare questa immagine suscita non poca emozione, sono i superstiti Bergamaschi dei Mille in occasione del cinquantesimo anniversario della spedizione. Hanno la barba bianca, il bastone e le medaglie sul petto; Pietro Vollpi è uno di loro (il primo a destra, seduto in basso). Sono gli uomini che solo cinquant’anni prima furono protagonisti di una delle più straordinarie imprese della storia italiana.  
Giada Zanini 5AL

venerdì 14 gennaio 2011

2 videogiornale: la diversità colora il mondo

150 ANNI UNITA' D'ITALIA: UN INNO IGNOTO


Il Canto degli italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli, è l’inno nazionale della Repubblica Italiana. Peccato, però, che il testo di Mameli sia sconosciuto a molti. Imbarazzante è l’episodio accaduto l’11 ottobre 1997, quando, in occasione della partita di calcio Italia-Inghilterra all’Olimpico di Roma, furono distribuiti 75.000 volantini che ne riportavano le parole. Un fatto accaduto solo tredici anni fa. Ora la situazione è migliorata? Una proposta della deputata Pdl Paola Frassinetti, avanzata in Parlamento il 17/03/2010 fa pensare che non sia così: si tratta del disegno di legge C. 3331, che prevede il finanziamento di un milione di euro per l’affissione dell’inno in tutte le classi delle scuole primarie e secondarie di primo grado.
Troppo poche le informazioni riguardo al nostro Inno. Pochi sanno, ad esempio, che il titolo potrebbe contenere un notevole errore: Aldo Alessandro Mola, docente emerito di Scienze Politiche alla Statale di Milano e autore di biografie e numerosi saggi storici, sostiene che non sia Mameli l’autore dell’Inno, ma un certo padre Atanasio Canata, intellettuale giobertiano vissuto tra il 1811 e il 1867. La figura dello stesso Mameli, eroico patriota morto a soli ventidue anni in difesa della breve Repubblica romana del 1849, è ritenuta da Mola una montatura che funzionava per l’immagine.
L’Inno nasce intorno alla metà del XIX secolo quando l’Italia si trova sotto il dominio austriaco ma ha ormai le basi per poter scacciare l’invasore. L’intento dell’autore, quindi, è quello di unire gli italiani nella lotta al nemico. Questi dovrebbero battersi con “l’elmo di Scipio”, cioè con lo stesso spirito con cui gli antichi romani, guidati da Scipione l’Africano, avevano sconfitto i Cartaginesi di Annibale. Come modello da imitare viene citato anche Francesco Ferrucci, “Ogn'uom di Ferruccio”, colui che nel 1530 difese Firenze dall’imperatore Carlo V.
“Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte” è un esplicito richiamo al coraggio e al valore militare, doti che appartenevano ai due condottieri nominati nell’inno ma che, forse, non rispecchiano l’italiano d’oggi. È legittimo pensare, infatti, che pochi siano davvero disposti a dare la propria vita per la patria.
Del resto, a parere di qualcuno, lo stesso Inno sembrerebbe contenere un messaggio non abbastanza patriottico: la Lega Nord ha infatti avanzato la proposta di sostituirlo con il “Va’, pensiero” di Puccini, ritenuto più adeguato. La polemica ha acceso gli animi anche nel giugno scorso, durante l'inaugurazione di una scuola primaria di Fanzolo di Vedelago, piccolo centro in provincia di Treviso, quando il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, pare abbia voluto che si intonasse l’inno della “Padania” anziché quello nazionale. Il ministro della difesa La Russa commentò: “Se fosse vero, sarebbe grave”. Il dibattito tra i politici è quindi aperto o quanto meno la Lega ha provato ad inaugurarlo, ma è difficile dire quanti tra i cittadini abbiano una qualche voce in questa diatriba, se siano interessati all’argomento o se prevalga l’indifferenza. D’altra parte la maggior parte di loro non conosce né l’uno né l’altro Inno o comunque non lo sa cantare!

Marco Fratelli 4AL

venerdì 7 gennaio 2011

Grazie Fede

Il “Serafino Riva”, piccola grande scuola
Negli Stati Uniti è molto diffuso il motto “big is better”, che esalta la quantità, la dimensione e l’estensione rispetto alla qualità. Automobili enormi, abitazioni enormi, autostrade enormi e bistecche extralarge fanno parte dell’immaginario comune americano. Ma, distogliendo lo sguardo da freeways e barbecue, questa esaltazione delle dimensioni può essere applicata alle scuole italiane? Nella mia esperienza di studentessa liceale ho avuto modo di sperimentare in prima persona la differenza tra un Istituto scolastico di grandi dimensioni e uno molto più piccolo. Lungi dal generalizzare ed elevare la mia opinione a verità, devo ammettere che “less is more”, il meno vale di più. Un complesso molto vasto dovrebbe offrire più spazi, più risorse, più opportunità. In realtà, io ho trovato dispersività, poca attenzione alle esigenze degli studenti, carenza di spazi (un anno senza aula, facendo lezione in laboratorio, non è proprio confortevole), disorganizzazione. “Abbi pazienza, stanno ampliando il polo scolastico, si stanno organizzando per accogliere i numerosi iscritti” mi sentivo ripetere. Poi la pazienza è finita, forse per insofferenza mia, forse per inadeguatezza loro. Così, un po’ per caso un po’ per fortuna, giusto sotto il mio naso ho scoperto un tesoro.
A Sarnico, sulle rive del lago Sebino, sorge un Istituto scolastico, il “Serafino Riva”, che non spicca certo per estensione e numero di iscritti, ma che sa farsi notare quando si tratta di iniziative, progetti ed eccellenze. In realtà già sapevo della sua esistenza ma, ingenuamente, avevo dato retta a certe dicerie che miravano a screditarne il valore. “E’ una scuoletta da quattro soldi, non ci sono i docenti, promuovono tutti per non perdere iscritti” sono solo alcune delle voci che aleggiavano attorno a questo Istituto. Però, esasperata dalla precedente esperienza, ho pensato di fare un tentativo, rivelatosi poi una grande idea. Ben presto, infatti, ho scoperto una realtà fatta di poche persone che danno tanto, pochi spazi pieni di creatività, ingegno e ambizione, palestre non certo olimpioniche in cui corrono piccoli grandi campioni. In un ambiente contenuto, il contributo del singolo è fondamentale. Non puoi nasconderti nella massa, le tue azioni, positive o negative che siano, si ripercuotono direttamente sulla vita di tutti. Al Serafino Riva si ha l’opportunità di partecipare in prima persona alla vita scolastica, al miglioramento dei servizi, alla creazione di iniziative. Nonostante la limitatezza di risorse, sia economiche che umane, questo Istituto ha partecipato e parteciperà a concorsi e iniziative a livello nazionale, mostrandosi in grado di competere, e anche superare, Istituti più grandi e attrezzati. Un esempio su tutti è quello del “Times Riva School”, il giornalino scolastico, che ha ottenuto, in pochi anni di attività, moltissimi riconoscimenti tra i quali anche la targa d’argento del Presidente della Repubblica. Possiamo poi citare i vari progetti legati all’Avis locale, che ogni anno vengono accolti con entusiasmo da molti giovani della scuola o lo sportello di volontariato Mente e Cuore, impegnato sui delicati fronti del sociale. I ragazzi più sportivi hanno l’opportunità di partecipare a tornei e competizioni a livello provinciale e ragionale, dimostrandosi vincenti. Inoltre il Comune di Sarnico appoggia anche interessanti corsi di vela, sci nautico e canoa, per conciliare formazione, sport e natura.
Sarebbe impossibile citare tutte le opportunità di cui tutti i ragazzi dell’istituto possono usufruire, ciò che conta è sottolineare come questa piccola scuola sappia essere grande dal punto di vista formativo, in quanto offre numerose attività stimolanti per la mente e per il corpo. Il vero stimolo, e questo lo sa chi ci vive(mi piace considerarla come una scuola di vita), è l’atmosfera che si respira tra i corridoi, le aule e gli atri; una sensazione di familiarità che interessa anche gli ultimi arrivati, creando un clima veramente fertile e adatto alla formazione di adolescenti. Il livello della didattica è, sempre riferendomi alla mia esperienza, alto, in quanto, in tre anni di frequenza, ho avuto modo di ricevere quella che considero un’”istruzione coi fiocchi”, sicuramente utile all’ingresso in università.
Proprio questo passaggio all’università, che di recente ho sperimentato, si è rivelato abbastanza traumatico, e questa è forse l’unica controindicazione del Serafino Riva: non si vorrebbe mai andare via.
Perciò, oltre a ricordare con grande affetto e riconoscimento tutti coloro che, in piccola o grande parte, hanno rappresentato il “Serafino Riva” con dedizione e impegno, vorrei lanciare un appello ai ragazzi. Quest’anno, purtroppo, non è partita la classe prima del liceo scientifico, in quanto non si è raggiunto il numero minimo di iscritti. Questo fatto è molto triste, perché rappresenta una sconfitta per chi crede nel valore di questa scuola. Tra la cause di questa penuria vedo sicuramente la disinformazione e il riemergere di certe “dicerie” che fanno male a tutti, poiché negano la possibilità di una scelta equa e ragionata. Ogni scuola ha i suoi difetti, anche il Serafino Riva non è certo perfetto, ma credo che una concorrenza leale sarebbe auspicabile, in barba ai boicottaggi e alle malelingue.
Questa è solo la mia modestissima opinione, ma se è possibile fare anche solo una piccola cosa per chi ha fatto tanto per me, spero funzioni!
Federica Silini