mercoledì 1 giugno 2011

150 ANNI UNITA' D'ITALIA: le epidemie risorgimentali


Bergamo, un secolo di mutua per rialzarsi!

Nel corso dell’Ottocento la nostra provincia dovette affrontare varie crisi epidemiche, che portarono un incremento della mortalità dei nostri concittadini. Spesso, ma non volentieri, si dovette ricorrere a interventi d’emergenza come, ad esempio, l’allestimento di ospedali provvisori, dove curare i malati.
Le più gravi epidemie, ora non più letali, sono la scarlattina, che colpì in primis il distretto di Bergamo e successivamente, a causa di un’estate calda e secca, si allargò a macchia d’olio agli altri comuni facendo vittime, tra le quali molti bambini, fino alla primavera del 1803.
 Il tifo petecchiale, malattia facilmente trasmissibile a causa della scarsa igiene, soprattutto nel periodo invernale, quando diventava più difficile la pulizia personale; la morte sopraggiungeva per collasso cardiaco dopo la comparsa di febbre alta e petecchie. L’epidemia esplose a causa dei trasferimenti di massa dalle campagne alle città per le carestie; essa colpì maggiormente gli anziani con una percentuale del 30-40%. Bergamo ne fu protagonista nel 1817 e, immediatamente, salì in pole position nella classifica delle città Italiane con maggior numero di ricoverati per tifo. Notata la presenza del contagio, il malato veniva subito isolato e trasferito presso il Galgario o il Lazzaretto, ospedali allestiti per limitare la diffusione della stessa, ci si occupava poi della disinfestazione degli indumenti e dell’abitazione del petecchioso.                                                                                                                                              
 Il vaiolo, come il tifo, era una tra le malattie più temute, si diffondeva soprattutto nel periodo delle nevi e colpiva maggiormente gli strati bassi della società, poiché causata dalla malnutrizione; a differenza di altre epidemie gravi, quali la peste, ad essa si poteva sfuggire evitando i posti più affollati, poiché si trasmetteva solo attraverso il contatto umano. I sintomi della malattia sono febbre alta e affaticamento simile a quello influenzale, dopo di ché si presentano, su tutto il corpo, croste che, guarendo, lasciano spazio a cicatrici sfiguranti. Il numero di malati non fu eccezionalmente alto, rispetto ad altre epidemie, ma, una volta contratto il virus, era impossibile guarirne. Dal 1801, a Bergamo, si cominciò a utilizzare la tecnica della vaiolizzazione, prevenendo il contagio della malattia e diminuendo notevolmente il tasso di mortalità. La gente era poco convinta di volersi vaccinare, ma dovette farlo per forza perché senza tale vaccino né si poteva frequentare la scuola né si poteva lavorare negli stabilimenti della città.                                          
 Il colera fece la sua comparsa in Europa nel XIX secolo; contratto attraverso l’ingestione di sostanze infette, colpiva maggiormente le persone deboli poiché in una persona sana il virus veniva distrutto dagli acidi della saliva e dello stomaco. L’alto tasso di mortalità, che avveniva per disidratazione, compromise notevolmente l’andamento della popolazione. Vista la vasta diffusione della malattia in molte città italiane, le autorità di Bergamo allertarono i cittadini dando indicazioni su come prevenirla, nonostante ciò la città ne fu comunque colpita nel 1835, contando su 1500 casi, quasi 1000 morti. La malattia venne sconfitta, ma tornò a far visita ai Bergamaschi in numerose altre occasioni in forme sempre più letali e mietendo sempre più vittime.
Nonostante gli svariati momenti di difficoltà, la nostra città è sempre riuscita ad alzarsi più forte e combattiva di prima, dando ai propri cittadini un motivo in più per cui essere orgogliosi delle loro origini.



Giada Fenaroli, Valentina Polini, Mirko Colosio
4^AL

Nessun commento:

Posta un commento